La notizia, che sugli organi di stampa e sugli altri media è rimbalzata nei giorni scorsi come una sorta di “curiosità” o poco più, è in realtà drammatica: ogni minuto l’equivalente di un autocarro di plastica finisce nei mari e negli oceani, e tale quantità non accenna affatto a diminuire: anzi, tempo 15 anni e saremo al doppio. E così si stima che eintro il 2050 il peso delle bottiglie di plastica supererà quello dei pesci: anche perché molti di questi ultimi saranno messi a rischio estinzione dal cambiamento dei loro habitat provocato proprio dalla plastica. E, anche al netto delle probabili imprecisioni di calcolo, il dato fa rabbrividire. L’allarme è stato lanciato dallo studio “The new plastics economy: rethinking the future of plastics” della fondazione Ellen MacArthur pubblicata World Economic Forum.
Un altro dato impressionante è quello relativo all’aumento esponenziale della produzione di plastica, che dal 1964 ad oggi è cresciuta di ben 20 volte. D’altra parte, la presenza negli oceani di ben cinque mega isole di immondizia (perlopiù plastica) in continua espansione non è certo un caso: il “Pacific Trash Vortex”, formatosi a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, potrebbe già contenere 100 milioni di tonnellate di detriti. E anche l’Atlantico ha la sua North Atlantic garbage patch, una chiazza di proporzioni comparabili. Parliamo di aree grandi quanto uno Stato degli Usa e profonde fino a 30 metri, che qualcuno ha già ribattezzato Wasteland, Garbage state o, più scientificamente, plastisfera.
Manco a dirlo, i principali responsabili sono i paesi più industrializzati. Cosa fare per cercare, se non di ridurre o arrestare, almeno rallentare il fenomeno? Pulire le coste e ridurre il packaging, soprattutto. Ma, come si sa, i cambiamenti culturali sono lenti e difficoltosi, e quando si parla di economia globale gli ostacoli sono innumerevoli. Staremo a vedere.